Opere in appalto e danno cagionato a terzi: anche il committente è responsabile

“Nei confronti di terzi danneggiati dall’esecuzione di opere, effettuate in forza di contratto di appalto, il committente è gravato dalla responsabilità oggettiva di cui all’art. 2051 c.c.. Tale responsabilità non può venir meno per la consegna dell’immobile all’appaltatore ai fini dell’esecuzione delle opere stesse e trova limite esclusivamente nel caso fortuito” Cassazione civile sez. III, 17/03/2021, (ud. 11/11/2020, dep. 17/03/2021), n.7553

Avvocato Gabriele Cevenini , Zola Predosa 30.03.2021


Enti religiosi e superbonus 110%: solo se rientrano tra i soggetti previsti dall’art. 19, comma 9, lett. d-bis) del D.L. n. 34/2020 (ONLUS, OdV, APS).

L’agenzia delle entrate, con risposta ad interpello n. 14-2021, scaricabile al link di seguito, ha precisato che, il noto superbonus 110% per ristrutturazione edilizia, non spetta per i lavori da effettuare sull’immobile della Parrocchia (adibito in parte da alloggi religiosi ed in parte da asilo)  se non costituito in forma di ONLUS, OdV o APS, visto che  l’ente religioso non è compreso tra i soggetti beneficiari della norma.

In altre parole, gli enti religiosi possono fruire del superbonus 110% solo se rientrano tra i soggetti previsti dall’art. 19, comma 9, lett. d-bis) del D.L. n. 34/2020 (ONLUS, OdV, APS). Resta comunque il diritto di tali enti di beneficiarie dell’agevolazione fiscale limitatamente alle spese sostenute per le parti comuni dell’edificio in condominio.

Avvocato Gabriele Cevenini, Zola Predosa 20 marzo 2021


L’Agente immobiliare, se ha concluso l’affare, ha diritto alla provvigione anche in assenza di incarico scritto

La Corte di Cassazione, II sezione civile, con ordinanza n. 7029-2021 depositata il 12 marzo 2021 ha statuito che: 

“7.5. Il diritto del mediatore alla provvigione sorge, in definitiva, tutte le volte in cui la conclusione dell’affare sia in rapporto causale con l’attività intermediatrice, non occorrendo un nesso eziologico diretto ed esclusivo tra l’attività del mediatore e la conclusione dell’affare, poiché è sufficiente che il mediatore – pur in assenza di un suo intervento in tutte le fasi della trattativa ed anche in presenza di un processo di formazione della volontà delle parti complesso ed articolato nel tempo – abbia messo in relazione le stesse, così da realizzare l’antecedente indispensabile per pervenire alla conclusione del contratto, secondo i principi della causalità adeguata (Cass. n. 869 del 2018; conf. Cass. n. 25851 del 2014).
7.6. D’altra parte, ai fini della configurabilità del rapporto di mediazione, non è necessaria l’esistenza di un preventivo conferimento di incarico per la ricerca di un acquirente o di un venditore, ma è sufficiente che la parte abbia accettato l’attività del mediatore avvantaggiandosene (Cass. n. 11656 del 2018; Cass. n. 25851 del 2014). Il rapporto di mediazione, inteso come interposizione neutrale tra due o più persone per agevolare la conclusione di un determinato affare, non postula, infatti, necessariamente un preventivo accordo delle parti sulla persona del mediatore, ma è configurabile pure in relazione ad una materiale attività intermediatrice che i contraenti accettano anche soltanto tacitamente, utilizzandone i risultati ai fini della stipula del contratto: sicché, ove il rapporto di mediazione sia sorto per incarico di una delle parti, ma abbia avuto poi l’acquiescenza dell’altra, quest’ultima resta del pari vincolata verso il mediatore (Cass. n. 21737 del 2010).
7.7. L’accertamento dell’esistenza del rapporto di causalità tra la conclusione dell’affare e l’attività svolta dal mediatore si configura come una questione di fatto rimessa all’apprezzamento del giudice di merito (cfr. Cass. n. 15880 del 2010) e, come tale, sindacabile in sede di legittimità, a norma dell’art. 360 n. 5 c.p.c. solo quando la pronuncia impugnata abbia del tutto omesso di esaminare un fatto dedotto in giudizio e decisivo ai fini della soluzione della controversia: come, in effetti, è accaduto nel caso in esame.”

Per il mediatore, ai fini del riconoscimento del proprio compenso sarà unicamente necessario dimostrare che la conclusione dell’affare sia dipesa dalla propria attività mediatrice.

@ Avvocato Gabriele  Cevenini – Zola Predosa 16.3.2021


Separazione e mantenimento: Illegittimo il rifiuto di un impiego perché non all’altezza del titolo di studio

Il titolo di studio, una laurea, non giustifica, ai fini del mantenimento, la decisione di respingere offerte di lavoro perché “non considerate all’altezza”. La Suprema Corte di Cassazione, infatti, con la pronuncia n. 5932 del 4.3.2021 ha statuito che  “l’impugnata sentenza ha confermato il diritto al mantenimento, quindi, sulla base di rilievi del tutto astratti, giungendo a negare dignità al lavoro manuale o di assistenza alla persona; mentre, al contrario, ha omesso di porre la propria attenzione sugli elementi rilevanti, come l’essere o no la coniuge in grado di procurarsi redditi adeguati, l’esistenza o no di proposte di lavoro, l’eventuale rifiuto immotivato di accettarle o comunque, l’attivazione concreta alla ricerca di una occupazione lavorativa: essa non si cala nel contesto concreto, al contrario essendo all’uopo necessario compiere una valutazione specifica delle proposte e dei lavori ricercati o reperiti, nonchè della raggiunta prova del diritto a non compierli e delle ragioni di ciò”. La sentenza per esteso consultabile di seguito:

Fatto

RILEVATO

– che è proposto ricorso per cassazione, affidato a cinque motivi, avverso la sentenza del 7 maggio 2019, n. 288, con la quale la Corte d’appello di Trieste, in controversia relativa alla separazione personale tra l’odierno ricorrente e la moglie, ha rigettato le doglianze proposte dal medesimo avverso la sentenza di primo grado;

– che l’intimata si difende con controricorso, depositando memoria.

Diritto

CONSIDERATO

– che i motivi vanno come di seguito riassunti:

1) omesso esame di fatto decisivo, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, con riguardo all’addebito della separazione al marito, confermato dalla corte territoriale, la quale ha omesso di valutare il passaggio della espletata c.t.u., secondo cui i figli hanno personalità armoniche, tanto da permettere l’affidamento condiviso ad entrambi i genitori dei medesimi, pur conviventi con la madre;

2) omesso esame di fatto decisivo, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, con riguardo all’addebito della separazione al marito, confermato dalla corte territoriale, anche sull’inesatto presupposto che la relazione extraconiugale del marito sia stata causalmente influente ai fini della cessazione della comunione di vita tra i coniugi, come sarebbe emerso da un migliore apprezzamento delle risultanze di causa;

3) violazione o falsa applicazione dell’art. 337 -ter c.c., con riguardo all’assegno in favore della prole, senza considerare che il tenore di vita antefatto è un mero principio tendenziale e che il ricorrente non gode più delle precedenti disponibilità economiche, come emerge dagli atti di causa;

4) violazione o falsa applicazione dell’art. 115 c.c., comma 1, (rectius c.p.c., come agevolmente desumibile dal contenuto del motivo), con riguardo all’assegno in favore della moglie, confermato nella misura di Euro 1.000,00 mensili, con superficiale valutazione delle risultanze di causa, non essendo oltretutto, a differenza di quanto opinato dalla sentenza impugnata, la controparte laureata in farmacia, ma in lingue ed avendo sempre rifiutato i lavori propostile dal marito;

5) violazione o falsa applicazione dell’art. 156 c.c., comma 1, essendosi la corte territoriale limitata ad affermare che la moglie ha redditi assai modesti, trascurando però che ha diverse entrate e che, comunque, l’assegno di mantenimento nella separazione -contrariamente a quanto affermato dalla corte territoriale – non mira a mantenere lo stesso tenore di vita goduto durante il matrimonio, ma assicura solo un contributo al coniuge economicamente più debole, sempre che, però, lo stesso si sia attivato per la ricerca di un lavoro, e non sia invece rimasto al riguardo del tutto inerte, sempre rifiutando, come nella specie, le molteplici possibilità lavorative proposte dal marito; in tal modo, la moglie ha aggravato ingiustificatamente la posizione debitoria del ricorrente;

– che la corte territoriale, per quanto ancora rileva, ha ritenuto che: a) va confermato l’addebito della crisi coniugale al marito, in ragione della condotta del medesimo, risultante da documenti e dalle deposizioni testimoniali raccolte, anche nel corso del procedimento penale a suo carico, nonchè in relazione alla relazione extraconiugale, causa del deterioramento dei reciproci rapporti; b) la comparazione dei redditi e del patrimonio delle parti mostra un elevato dislivello a favore del marito, onde su tale base è stato correttamente determinato dal tribunale l’assegno di mantenimento in favore dei due figli in Euro 650,00 mensili ciascuno, oltre alla metà delle spese straordinarie; c) quanto all’assegno in favore della moglie per Euro 1.000,00, le sue attitudini lavorative vanno ricondotte alla laurea in farmacia, ma il profilo individuale dell’avente diritto non va mortificato con possibili occupazioni inadeguate, non potendosi pretendere che “una donna quarantottenne, laureata, che aveva goduto di un livello di vita invidiabile”, poi “sia condannata al banco di mescita o al badantato”;

– che, ciò posto, i primi due motivi – i quali possono essere congiuntamente trattati, presentando il medesimo vizio – sono inammissibili;

– che, invero, con riguardo all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, come novellato dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54, comma 1, n. 1, lett. b), convertito con L. n. 134 del 2012, si è da tempo chiarito da questa Corte come la nuova previsione contempli un vizio della sentenza diverso da quelli afferenti alla motivazione, e che si traduca nell’omesso esame di un fatto materiale, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e che abbia carattere decisivo (cfr., per tutte, Cass. s.u. n. 8053/2014);

– che, nella specie, la corte del merito, con amplia argomentazione, ha dato conto delle conclusioni raggiunte, in particolare quanto all’addebito della separazione al marito: da essa, invero, fondato su due evenienze del tutto in linea con i principi dettati da questa Corte in ordine alle ragioni che possono fondare tale pronuncia;

– che il terzo motivo è del pari inammissibile, in quanto esso, pur sotto l’egida del vizio di violazione di legge, prospetta invece, nella realtà, una diversa valutazione delle risultanze di causa, riservate all’apprezzamento del giudice del merito; onde le doglianze relative alla presunta diversa portata dei documenti si risolve in un sindacato di fatto circa l’esito della valutazione probatoria;

– che il quarto ed il quinto motivo, da trattarsi congiuntamente in quanto censurano sotto diversi profili la determinazione della misura dell’assegno in favore della moglie, sono manifestamente fondati;

– che, invero, nel ragionamento esposto in sentenza dalla corte territoriale, essa: afferma l’irrilevanza della ricerca di un lavoro, quale fonte di reddito; anzi, dà piena giustificazione al rifiuto di impiego, quando non fosse esattamente adeguato al titolo di studio ed alle aspirazioni individuali del coniuge che reclami l’assegno di mantenimento a carico dell’altro coniuge separato; afferma, quindi, che “il profilo individuale… non va mortificato con possibili occupazioni inadeguate”, affermando il diritto del coniuge richiedente a rifiutare ogni lavoro, in quanto “non ogni proposta può ritenersi pertinente ed adeguata”; mostra di ritenere svilente che una persona laureata, in precedenza avendo “goduto di un livello di vita invidiabile”, in seguito possa essere “condannata al banco di mescita o al badantato”;

– che in tal modo, la corte territoriale si pone manifestamente in contrasto con il disposto dell’art. 156 c.c., come interpretato da questa Corte: invero, in tema di separazione personale dei coniugi, l’attitudine al lavoro proficuo dei medesimi, quale potenziale capacità di guadagno, costituisce elemento che è indispensabile valutare, ai fini delle statuizioni afferenti l’assegno di mantenimento, dovendo il giudice del merito accertare l’effettiva possibilità di svolgimento di un’attività lavorativa retribuita, in considerazione di ogni concreto fattore individuale e ambientale; donde rileva, ad esempio, la possibilità di acquisire professionalità diverse ed ulteriori rispetto a quelle possedute in precedenza, o la circostanza che il coniuge abbia ricevuto, successivamente alla separazione, effettive offerte di lavoro, ovvero che comunque avrebbe potuto concretamente procurarsi una specifica occupazione (cfr., fra le altre, Cass. 19 giugno 2019, n. 16405; Cass. 9 marzo 2018, n. 5817; Cass. 13 gennaio 2017, n. 789; Cass. 13 gennaio 2017, n. 789);

– che la corte territoriale non menziona le concrete, singole attività lavorative eventualmente reperite dalla richiedente l’assegno, che non vengono precisate, al pari di quelle eventualmente oggetto dell’attività di ricerca di un lavoro in suo favore svolta dal marito, limitandosi la corte ad affermare il diritto di non reperire alcuna attività lavorativa reputata inferiore, senza però affermare di avere valutato gli impieghi effettivamente reperiti o proposti, al fine di poterne fondatamente affermare, all’esito della valutazione dei medesimi, la reale inadeguatezza e inaccettabilità per la richiedente;

– che l’impugnata sentenza ha confermato il diritto al mantenimento, quindi, sulla base di rilievi del tutto astratti, giungendo a negare dignità al lavoro manuale o di assistenza alla persona; mentre, al contrario, ha omesso di porre la propria attenzione sugli elementi rilevanti, come l’essere o no la coniuge in grado di procurarsi redditi adeguati, l’esistenza o no di proposte di lavoro, l’eventuale rifiuto immotivato di accettarle o comunque, l’attivazione concreta alla ricerca di una occupazione lavorativa: essa non si cala nel contesto concreto, al contrario essendo all’uopo necessario compiere una valutazione specifica delle proposte e dei lavori ricercati o reperiti, nonchè della raggiunta prova del diritto a non compierli e delle ragioni di ciò;

– che, pertanto, la sentenza impugnata va cassata, con rinvio alla corte del merito, in diversa composizione, affinchè proceda agli accertamenti necessari alla corretta applicazione dei principi esposti.

PQM

P.Q.M.

La Corte accoglie il quarto ed il quinto motivo, inammissibili gli altri; cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa innanzi alla Corte d’appello di Trieste, in diversa composizione, anche per la liquidazione delle spese di legittimità.

Dispone che in caso di diffusione del presente provvedimento siano omesse le generalità e gli altri dati identificativi, a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 2 febbraio 2021.

Depositato in Cancelleria il 4 marzo 2021

 

Avvocato Gabriele Cevenini, Zola Predosa 20.03.2021


Illegittimità del DPCM del 8.3.2020: l’obbligo di permanenza domiciliare consiste in una sanzione penale restrittiva della libertà personale non preprogativa di un atto amministrativo

In data 27.01.2021 ,il Tribunale  di Reggio Emilia, ha pronunciato sentenza di proscioglimento, nei confronti di una coppia uscita di casa durante il lockdown , per asserite false certificazioni. In particolare, il Giudicante ha ritenuto di dover disapplicare il DPCM 8.3.2020, atto amministrativo, per ritenuta illegittimità costituzionale dello stesso, in particolare, per violazione all’art. 13 della Costituzione Italia.

Nello specifico, il Giudicante ha ritenuto che le disposizioni contenute nel DPCM relative alle misure volte ad “evitare ogni spostamento delle persone fisiche in entrata e in uscita dai territori di cui al presente articolo, nonché all’interno dei medesimi territori, salvo che per gli spostamenti motivati da comprovate esigenze lavorative o situazioni di necessità ovvero spostamenti per motivi di salute” rappresentino un vero e proprio obbligo di permanenza domiciliare che, nel nostro ordinamento giuridico si configura come sanzione penale restrittiva. Il tutto in contrasto con la doppia riserva, di legge e di giurisdizione, espressa nell’articolo 13 della Costituzione Italiana, ai sensi del quale “La libertà personale è inviolabile. Non è ammessa forma alcuna di detenzione, di ispezione o perquisizione personale, né qualsiasi altra restrizione della libertà personale, se non per atto motivato dell’autorità giudiziaria.

Conseguentemente, secondo il Giudice  sono da ritenersi illegittime le autocertificazioni sottoscritte, incompatibili con lo stato di diritto del nostro paese e, quindi, il fatto non costituisce reato.

E’ sicuramente un precendente giurisprudenziale molto importante e non resta che attendere  eventuali altre pronunce per un consolidamento o meno di tale orientamento giurisprudenziale.

Zola Predosa, 12.03.2021 Avvocato Gabriele Cevenini

Tribunale di Reggio Emilia, sentenza n. 54/2021, per esteso:

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
TRIBUNALE DI REGGIO EMILIA
Sezione GIP-GUP

Il giudice, dott. Dario De Luca, provvedendo in Camera di Consiglio sulla richiesta di emissione del decreto penale di condanna avanzata, come in atti, dal Pubblico Ministero, ha pronunciato e pubblicato la seguente

SENTENZA

nei confronti di:
C. D. e G. M., generalizzato/a/i, difeso/a/i. e imputato/a/i, come da allegata copia della richiesta di emissione di decreto penale di condanna, del delitto di cui all’art 483 CP,
[a) del reato p. e p. dall’art 483 C.P., perché, compilando atto formale di autocertificazione per dare contezza del loro essere al di fuori dell’abitazione in contrasto con l’obbligo imposto dal DCPM 08.03.2020, attestavano falsamente ai Carabinieri di Correggio: G. M. di essere andata a sottoporsi ad esami clinici; C. D. dI averla accompagnata.
In Correggio il 13.03.2020]

MOTIVAZIONE

Procedendo penalmente contro ciascun imputato per il reato in rubrica rispettivamente ascritto, il PM richiede l’emissione di decreto penale di condanna alla pena determinata nella misura di cui in atti.
Ritiene il GIP che la richiesta di emissione di decreto di condanna non possa essere accolta e che debba trovare luogo una sentenza di proscioglimento, ex art. 129 CPP, per effetto delle brevi considerazioni che seguono.
Infatti:

– premesso che viene contestato a ciascun imputato il delitto di cui all’art. 483 CP «…perché, compilando atto formale di autocertificazione per dare contezza del loro essere al di fuori dell’abitazione in contrasto con l’obbligo imposto dal DCPM 08.03.2020, attestavano falsamente ai Carabinieri di Correggio: G. R. di essere andata a sottoporsi ad esami clinici; C. D. di averla accompagnata…», avendo il personale in forza al Comando Carabinieri di Correggio accertato che la donna quel giorno non aveva fatto alcun accesso presso l’Ospedale di Correggio;
– evidenziato che la violazione contestata trova quale suo presupposto – al fine di giustificare il proprio allontanamento dall’abitazione – l’obbligo di compilare l’autocertificazione imposto in via generale per effetto del Decreto della Presidenza del Consiglio dei Ministri (D.P.C.M.) citato nell’autocertificazione stessa;

– in via assorbente, deve rilevarsi la indiscutibile illegittimità del DPCM del 8.3.2020, evocato nell’autocertificazione sottoscritta da ciascun imputato – come pure di tutti quelli successivamente emanati dal Capo del Governo, ove prevede che “1. Allo scopo di contrastare e contenere il diffondersi del virus COVID-19 le misure di cui all’art. 1 del decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 8 marzo 2020 sono estese all’intero territorio nazionale”, e del rinviato DPCM dei 8.3.2020, ove stabilisce che “Art. 1 Misure urgenti di contenimento del, contagio nella regione Lombardia e nelle province di Modena, Parma, Piacenza, Reggio nell’Emilia, Rimini, Pesaro e Urbino, Alessandria, Asti, Novara, Verbano-Cusio-Ossola, Vercelli, Padova, Treviso, Venezia.
– 1. Allo scopo di contrastare e contenere il diffondersi del virus” COVID-19 nella regione Lombardia e nelle province di Modena, Parma, Piacenza, Reggio nell’Emilia, Rimini, Pesaro e Urbino, Alessandria, Asti, Novara, Verbano-Cusio-Ossola, Vercelli, Padova, Treviso e Venezia, sono adottate le seguenti misure:
– a) evitare ogni spostamento delle persone fisiche in entrata e in uscita dai territori di cui al presente articolo, nonché all’interno dei medesimi territori, salvo che per gli spostamenti motivati da comprovate esigenze lavorative o situazioni di necessità ovvero spostamenti per motivi di salute”.

– Tale disposizione, stabilendo un divieto generale e assoluto di spostamento al di fuori della propria abitazione, con limitate e specifiche eccezioni, configura un vero e proprio obbligo di permanenza domiciliare. Tuttavia, nel nostro ordinamento giuridico, l’obbligo di permanenza domiciliare consiste in una sanzione penale restrittiva della libertà personale che viene irrogata dal Giudice penale per alcuni reati all’esito del giudizio (ovvero, in via cautelare, in una misura di custodia cautelare disposta dal Giudice, nella ricorrenza dei rigidi presupposti di legge, all’esito di un procedimento disciplinato normativamente), in ogni caso nel rispetto del diritto di difesa. Sicuramente nella giurisprudenza è indiscusso che l’obbligo di permanenza domiciliare costituisca una misura restrittiva della libertà personale.

Peraltro, la Corte Costituzionale ha ritenuto configurante una restrizione della libertà personale delle situazioni ben più lievi dell’obbligo di permanenza domiciliare come, ad esempio, il “prelievo ematico” (Sentenza n. 238 del 1996) ovvero l’obbligo di presentazione presso l’Autorità di PG in concomitanza con lo svolgimento delle manifestazioni sportive, in caso di applicazione del DASPO, tanto da richiedere una convalida del Giudice in termini ristrettissimi. Anche l’accompagnamento coattivo alla frontiera dello straniero è stata ritenuta misura restrittiva della libertà personale, con conseguente dichiarazione d’illegittimità costituzionale della disciplina legislativa che non prevedeva il controllo del Giudice ordinario sulla misura, controllo poi introdotto dal legislatore in esecuzione della decisione della Corte Costituzionale; la disciplina sul trattamento sanitario obbligatorio, ugualmente, poiché impattante sulla libertà personale, prevede un controllo tempestivo del Giudice in merito alla sussistenza dei presupposti applicativi previsti tassativamente dalla legge: infatti, l’art. 13 Cost. stabilisce che le misure restrittive della libertà personale possono essere adottate solo su «…atto motivato dall1autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge»; primo corollario di tale principio costituzionale, dunque, è che un DPCM non può disporre alcuna limitazione della libertà personale, trattandosi di fonte meramente regolamentare di rango secondario e non già di un atto normativo avente forza di legge; secondo corollario dei medesimo principio costituzionale è quello secondo il quale neppure una legge (o un atto normativo avente forza di legge, qual è il decreto-legge) potrebbe prevedere in via generale e astratta, nel nostro ordinamento, l’obbligo della permanenza domiciliare disposto nei confronti di una pluralità indeterminata di cittadini, posto che l’art. 13 Cost. postula una doppia riserva, di legge e di giurisdizione, implicando necessariamente un provvedimento individuale, diretto dunque nei confronti di uno specifico soggetto, in osservanza del dettato di cui al richiamato art. 13 Cost.

– Peraltro, nella fattispecie, poiché trattasi di DPCM, cioè di un atto amministrativo, il Giudice ordinario non deve rimettere la questione dì legittimità costituzionale alla Corte costituzionale, ma deve procedere, direttamente, alla disapplicazione dell’atto amministrativo illegittimo per violazione di legge (Costituzionale),
– Infine, non può neppure condividersi l’estremo tentativo dei sostenitori, ad ogni costo, della conformità a Costituzione dell’obbligo di permanenza domiciliare sulla base della considerazione che il DPCM sarebbe conforme a Costituzione, in quanto prevederebbe delle legittime limitazioni della libertà di circolazione ex art. 16 Cost. e non della libertà personale. Infatti, come ha chiarito la Corte Costituzionale la libertà di circolazione riguarda i limiti di accesso a determinati luoghi, come ad esempio, l’affermato divieto di accedere ad alcune zone, circoscritte che sarebbero infette, ma giammai può comportare un obbligo di permanenza domiciliare (Corte Cost., n. 68 del 1964). In sostanza la libertà di circolazione non può essere confusa con la libertà personale: i limiti della libertà di circolazione attengono a luoghi specifici il cui accesso può essere precluso, perché ad esempio pericolosi; quando invece il divieto di spostamento non riguarda i luoghi, ma le persone allora la limitazione si configura come vera e propria limitazione della libertà personale. Certamente quando il divieto di spostamento è assoluto, come nella specie, in cui si prevede che il cittadino non può recarsi in nessun luogo al di fuori della propria abitazione è indiscutibile che si versi in chiara e illegittima limitazione della libertà personale.
– In conclusione, deve affermarsi la illegittimità del DPCM indicato per violazione dell’art. 13 Cost., con conseguente dovere del Giudice ordinario di disapplicare tale DPCM ai sensi dell’art. 5 della legge n. 2248 del 1865 All. E.
– Poiché, proprio in forza di tale decreto, ciascun imputato è stato “costretto” a sottoscrivere un’autocertificazione incompatibile con lo stato di diritto del nostro Paese e dunque illegittima, deriva dalla disapplicazione di tale norma che la condotta di falso, materialmente comprovata come in atti, non sia tuttavia punibile giacché nella specie le esposte circostanze escludono l’antigiuridicità in concreto della condotta e, comunque, perché la condotta concreta, previa la doverosa disapplicazione della norma che imponeva illegittimamente l’autocertificazione, integra un falso inutile, configurabile quando la falsità incide su un documento irrilevante o non influente ai fini della decisione da emettere in relazione alla situazione giuridica che viene in questione: al riguardo, è ampiamente condivisibile l’interpretazione giurisprudenziale, anche di legittimità, secondo la quale “Non integra il reato dì falso ideologico in atto pubblico per induzione in errore del pubblico ufficiale l’allegazione alla domanda di rinnovo di un provvedimento concessorio di un falso documento che non abbia spiegato alcun effetto, in quanto privo di valenza probatoria, sull’esito della procedura amministrativa attivata. (Fattispecie relativa a rinnovo di una concessione mineraria)” [Cass. Pen. Sez. 5, Sentenza n. 11952 del 22/01/2010 (dep. 26/03/2010) Rv. 246548 – 01]: siccome, nella specie, è costituzionalmente illegittima, e va dunque disapplicata, la norma giuridica contenuta nel DPCM che imponeva la compilazione e sottoscrizione della autocertificazione, il falso ideologico contenuto in tale atto è, necessariamente, innocuo; dunque, la richiesta di decreto penale non può trovare accoglimento.
Alla luce di tutto quanto sin qui detto, deve pronunciarsi sentenza di proscioglimento, nei confronti di ciascun imputato, perché il fatto non costituisce reato,

P.Q.M.

Visto l’art. 129, 530, nonché 459 III CPP,
dichiara non luogo a procedere nei confronti di C. D. e G. M. in ordine al reato loro rispettivamente ascritto perché il fatto non costituisce reato.
Reggio Emilia, 27.01.2021.


La tutela dell’acquirente nella compravendita di immobili da costruire.

La vendita di immobili in corso di costruzione

E’ noto  il lungo lasso di tempo necessario per la realizzazione di un immobile ex. novo (generalmente dai 14 ai 26 mesi), intercorrente tra la richiesta del titolo abilitativo di costruzione e la fine dei lavori. Numerosi, infatti, sono i rischi ed i danni che si possono verificare in un così ampio arco temporale ovvero i cd. Rischi Immobiliari del Development (Rischio urbanistico; rischio edilizio; rischio finanziario; rischi societari). Proprio in tema di rischi societari il Dl 1/2012, convertito con la legge 27/2012, art. 3), e regolamentate dal DM 23 giugno 2012, n. 138, in vigore dal 29 agosto 2012, cd. decreto liberalizzazioni, non è propriamente rassicurante. Infatti, come noto, tale decreto ha consentito la costituzione delle srl semplificate (anche ad 1 euro di capitale sociale). Risulta, quindi, chiaro ed evidente come il capitale sociale oltre ad avere una funzione vincolistica rappresenta anche una garanzia per i creditori sociali, e tale carattere risulta essere più marcato nelle società di capitali, ed in particolare nelle società a responsabilità limitata semplificate, poiché, in quanto persone giuridiche, rispondono esclusivamente con il loro patrimonio delle obbligazioni assunte. Conseguentemente è opportuno sempre verificare, con il proprio legale, la storicità dal’appaltatrice, le garanzie sociali, la presenza o meno di protesti, ed anche un casellario giudiziario, il tutto prima di sottoscrivere contratti ed affidare i lavori. 

Il Legislatore, proprio per fronteggiare i pericoli dal ritardo relativi ai cd. rischi immobiliari del Development, ed anche per contrastare il fenomeno insorto prima del 2006 di vere e proprie truffe dove i costruttori su carta prendevano acconti per la realizzazione delle opere per poi sparire o cessare l’attività aziendale, è intervenuto con il D.Lgs n. 122/2005.

Tralasciando l’ambito di applicazione soggettivo ed oggettivo la cui verifica dei presupposti spetterà al vostro legale riteniamo sia degno di menzione il cd. Obbligo di consegna della Fidejussione. In particolare è previsto, a tutela del compratore,  che durante la stipula del contratto (preliminare generalmente)  il venditore debba rilasciare un’apposita fidejussione (bancaria o assicurativa) che garantisca il compratore di tutte le somme versate sino all’atto finale ovvero il rogito notarile. Cosicché nell’ipotesi, non tanto remota nella pratica, che il costruttore non dovesse realizzare l’opera (o sparire o fallire) il compratore, che si vedrà certamente senza casa, potrà andare a chiedere alla banca o all’assicurazione, in forza delle fidejussione rilasciatagli, le somme versate sino a quel momento. Conseguentemente, è bene farsi assistere già dalla fase iniziale dal vostro legale di fiducia al fine di ottenere tutta la documentazione necessaria e gli strumenti a vostra tutela per evitare, quindi, contenziosi futuri.

Infine, Un’ulteriore garanzia (preziosa) è rappresentata dall’obbligo del costruttore di rilasciare all’acquirente per l’immobile da costruire una polizza assicurativa, decennale, che tenga indenne il compratore da danni derivanti da rovina totale o parziale di edificio o gravi difetti costruttivi delle opere.

Zola Predosa, 5 marzo 2021 Avv. Gabriele Cevenini @ Studio Legale Cevenini


GARANZIE PER LE DIFFORMITÀ E I VIZI NEL CONTRATTO DI APPALTO

LA NORMATIVA

Come noto, in tema di agevolazioni fiscali sugli interventi di ristrutturazione edilizia, già affrontati nel nostro sito dedicato al portale edilizia ed urbanistica e consultabile cliccando qui, il Decreto Legge n. 34 del 19 maggio 2020 (cd. Decreto rilancio) ha elevato al 110% ( il cd. Superbonus 110%) l’aliquota di detrazione per specifici interventi edili. Nel corrente post non tratteremo tale argomento arcinoto bensì forniremo strumenti a tutela dei committenti (e dell’appaltatore) qualora dovessero verificarsi vizi o difformità nell’esecuzione dei contratti di appalto

Si definisce Appalto il contratto con il quale un soggetto, cd. Committente, affida ad altri, il cd. Appaltatore, il compimento di un’opera (come la costruzione di un edificio) o lo svolgimento di un servizio verso un corrispettivo in danaro.  Ai sensi e per gli effetti dell’art. 1667 codice civie “L’appaltatore è tenuto alla garanzia per le difformità e i vizi dell’opera. La garanzia non è dovuta se il committente ha accettato l’opera  e le difformità o i vizi erano da lui conosciuti o erano riconoscibili purché in questo caso, non siano stati in malafede taciuti dall’appaltatore. Il committente deve, a pena di decadenza, denunziare all’appaltatore le difformità o i vizi entro sessanta giorni dalla scoperta. La denunzia non è necessaria se l’appaltatore ha riconosciuto le difformità o i vizi o se li ha occultati. L’azione contro l’appaltatore si prescrive in due anni dal giorno della consegna dell’opera. Il committente convenuto per il pagamento può sempre far valere la garanzia, purché le difformità o i vizi siano stati denunciati entro sessanta giorni dalla scoperta e prima che siano decorsi i due anni dalla consegna.

Ed ancora l’articolo 1668 del codice civile statuisce che “Il committente può chiedere che le difformità o i vizi siano eliminati a spese dell’appaltatore, oppure che il prezzo sia proporzionalmente diminuito, salvo il risarcimento del danno nel caso di colpa dell’appaltatore.
Se però le difformità o i vizi dell’opera sono tali da renderla del tutto inadatta alla sua destinazione, il committente può chiedere la risoluzione del contratto.”

TUTELA DEL COMMITTENTE

In altre parole, il Legislatore mette a disposizione del committente due diverse forme di tutela, alternative tra loro.

Con la Richiesta dell’eleminazione delle difformità o vizi a cura e a spese dell’appaltatore, il committente che abbia prontamente denunciato i vizi (sul punto potrebbe interessarti l’articolo su termini e decadenze della denuncia vizi consultabile al seguente link) può chiedere che l’appaltatore elimini suddetti vizi a cura e spese dell’appaltatore stesso. Resta salvo poi il diritto al risarcimento del danno ex. art. 1668, I comma, c.c.

Qualora poi la difformità vizi dovesse essere tale da rendere l’opera “del tutto inadatta alla sua destinazione” è possibile agire giudizialmente per la risoluzione del contratto (con contestuale domanda di risarcimento danni).

Oppure l’ultimo strumento a tutela del Committente è rappresentato di chiedere la riduzione proporzionale del prezzo pattuito.

TUTELA DELL' APPALTATORE

La garanzia di cui sopra non opera per vizi palesi se l’opera in sede di consegna sia stata accettata dall’appaltante ma è limitata ai soli vizi occulti o dolosamente taciuti dall’appaltatore.

La garanzia opera poi solo se il committente abbia denunciato all’appaltatore il vizio o la difformità entro 60 giorni dalla scoperto.

L’azione contro l’Appaltatore si prescrive in un termine abbreviato di 2 anni dalla consegna.

GIURISPRUDENZA MERITEVOLE DI NOTA

 

“Nel contratto di appalto non vi è esonero da responsabilità per i vizi dell’opera se si sostiene di aver eseguito le direttive del committente dovendo l’appaltatore assolvere al proprio dovere osservando i criteri generali della tecnica relativi al particolare lavoro affidatogli” Tribunale Milano, Sez. VII, 05/11/2020, n. 6996

n materia di appalto avente a oggetto la costruzione di edifici o di altre cose immobili destinate per loro natura a lunga durata, l’indagine volta a stabilire se i difetti costruttivi ricadano nella disciplina dell’articolo 1669 del Cc, che comporta la responsabilità extracontrattuale dell’appaltatore, ovvero in quella posta dagli articoli 1667 e 1668 del Cc in tema di garanzia per le difformità e i vizi dell’opera, rientra nei compiti propri del giudice del merito, coinvolgendo l’accertamento e la valutazione degli elementi di fatto del caso concreto. Al giudice di merito spetta altresì stabilire – con accertamento sottratto al sindacato di legittimità, ove adeguatamente motivato – se le acquisizioni processuali sono sufficienti a formulare compiutamente il giudizio finale sulle caratteristiche dei difetti, dovendo egli, al riguardo, accertare se essi, pur afferendo a elementi secondari e accessori, siano tali da incidere negativamente, pregiudicandoli in modo considerevole nel tempo, sulla funzionalità e sul godimento dell’immobile” Cassazione Civile, sez III, 20/11/2020 n.26529

La generica esistenza dei vizi – e dunque la loro percezione da parte del committente – non può determinare l’insorgenza dell’obbligo di denuncia à sensi dell’art. 1667 cc, laddove non vi sia la piena consapevolezza della loro entità e del rapporto eziologico con la condotta dell’appaltatore.” Tribunale di Savona, 23/07/2020

Zola Predosa, 5.3.2021 Avv. Gabriele Cevenini @ Studio Legale Cevenini


Sfratti-in-periodo-covid

Gli sfratti ai tempi del Covid

Il corrente post vuole essere un focus tematico in tema di sfratti ai tempi della pandemia. In particolare, volto ad un aggiornamento, sulla normativa attuale al 27.2.2021, essendo di fatto possibili le convalide di sfratto e fornire strumenti di tutela a chi li subisce.

Sul punto, infatti, vi è notevole confusione e le informazioni contenute in numerose testate giornalistiche generano più caos che altro. Riceviamo, ormai da mesi richieste di chiarimento, dai nostri clienti, piccoli o mono-proprietari,  nei territori di Zola Predosa,  Casalecchio di Reno, Valsamoggia, San Lazzaro di Savena, San Giovanni in Persiceto, Pieve di Cento, Castello d’Argile e Bologna.

Ciò rappresenta il motivo per il quale abbiamo deciso di scrivere il presente focus tematico

Premesso che, il cd. sfratto è una procedura giudiziale con la quale il Giudice, del Tribunale del luogo dove ha sede l’immobile, ordina all’inquilino di lasciare libero l’immobile stesso. Si può poi avere uno sfratto per morosità, quando il conduttore non paga i canoni di locazione o per finita locazione quando è scaduto il contratto e l’immobile non viene rilasciato spontaneamente dall’inquilino al proprietario.

Al tempo in cui si scrive, 27.2.2021, la normativa attuale è la seguente. L’articolo 13, comma 13, del Decreto Legge n. 183 del 2020 (cd. mille proroghe 2020) ha prorogato la sospensione dell’esecuzione dei provvedimenti di rilascio degli immobili al 30 giugno 2021. Il 25 febbraio 2021, poi, è arrivata l’approvazione definitiva del Senato in merito al Decreto Milleproroghe 2021. Primo provvedimento in cui il nuovo governo del Professore Mario Draghi ha chiesto la cd. questione di fiducia e siamo in attesa ora della formale legge di conversione.

In ogni caso, il cd. decreto mille proroghe 2021, ha confermato il blocco dell’esecuzione degli sfratti sino al 30 giugno 2021 apponendone però dei limiti. In particolare “limitatamente ai provvedimenti di rilascio adottati per mancato pagamento del canone alle scadenze e ai provvedimenti di rilascio conseguenti all’adozione del decreto di trasferimento di immobili pignorati ed abitati dal debitore e dai suoi familiari”.

In altre parole, venendo all’aspetto pratico della questione: 

1) Se il Vostro inquilino non paga gli affitti non attendete il 30 giugno, è possibile procedere già da ora con una formale costituzione in mora ed avviare la procedura di sfratto mediante la notifica della cd. intimazione di sfratto per morosità. Solo così facendo, ai sensi e per gli effetti dell’art. 26 del DPR n. 917/86 (TUIR), potrete non pagare le imposte sui canoni di locazione (non percepiti)

2) E’ possibile poi agire separatamente o contestualmente allo sfratto per morosità per il pagamento a vostro favore dei canoni non versati.

3) In ogni caso, è bene procedere senza indugio al fine di ottenere al piu’ presto la data di rilascio per procedere, mediante ufficiale giudiziario, se non vi è il rilascio spontaneo da parte dell’inquilino, appena possibile.

Le suddette disposizioni si applicano sia ai locali commerciali (ad uso non abitativo) che a quelli privati (ad uso abitativo).

Chiaramente per gli inquilini che subiscono una procedura di sfratto è bene che si attivino immediatamente contattando i Servizi Sociali del proprio comune, al fine anche di verificare i presupposti per fruire del fondo affitti comunale, segnaliamo in tal proposito che dalle 9 di martedì 16 febbraio alle 12 del 18 marzo 2021 è possibile presentare la domanda al bando del comune di Bologna per la contribuzione dell’affitto. Piu’ informazioni consultabili sul sito istituzionale al link: http://www.comune.bologna.it/news/contributo-affitto-2021 .

In ogni caso, i servizi sociali del Vostro comune vi esporranno anche le modalità per accedere ai “Bandi – Acer Bologna ” per gli alloggi popolari.  

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La carta dei diritti del Cliente verso l’Avvocato

Ai sensi e per gli effetti dell’articolo 2 della legge professionale forense l’avvocato è un libero professionista che, in libertàautonomia e indipendenza, svolge l’attività difensiva.

Il fondamento per il rapporto cliente – avvocato è il (reciproco) rapporto di fiducia: stabilisce infatti, l’articolo 35 del Codice Deontologico Forense  che “il rapporto con la parte assistita è fondato sulla fiducia“.

Proprio per tali ragioni assume particolare rilevanza il primo incontro informativo.

Il primo incontro informativo, infatti, se non vi sono stati già contatti o conoscenze pregresse, è fondamentale per il rapporto fiduciario è il primo contatto personale con l’Avvocato.

Il Colloquio è coperto da segreto professionale, e quindi andranno esposti i fatti ed esibita la documentazione ritenuta rilevante.

L’Avvocato darà poi alcune indicazioni, la cui specificità dipende dalla specificità delle informazioni ricevute dal cliente. Si chiariranno gli aspetti relativi alle spese legali ed a rischi connessi al procedimento. Sommariamente i diritti del cliente verso l’Avvocato possono essere così riassunti:

1. Il cliente non deve tacere nulla di cui è a conoscenza e che potrebbe portare l’avvocato a non accettare l’incarico. Uno dei principi cardini del codice civile in materia di obbligazioni contrattali è quello relativo al comportamento «secondo buona fede». Ciascuna parte deve rivelare all’altra tutto ciò che sa e che potrebbe portare l’altra a non concludere l’affare. Ecco perché, prima di avviare una causa, il cliente deve comunicare al proprio legale tutti gli aspetti “deboli” della propria difesa e quelli “forti” dell’avversario. Spesso invece avviene che l’avvocato scopre le “magagne” del proprio cliente solo leggendo gli atti avversari, a causa già avviata.

2. Il cliente non può dichiarare di essere nelle condizioni economiche per ottenere il gratuito patrocinio dopo aver ricevuto la consulenza. Difatti l’avvocato potrebbe rifiutare il mandato, non essendo tenuto ad accettare questa forma di remunerazione. Nel qual caso, però, il cliente avrebbe ottenuto la consulenza gratuitamente o, comunque, ad un costo inferiore rispetto al dovuto, facendo leva sulla propria incapacità di onorare la parcella.

3. Al contrario il cliente non può fingere di avere la possibilità di pagare l’avvocato quando invece non le ha. Millantare disponibilità economiche inesistenti, inducendo in errore l’avvocato sul rispetto degli accordi conclusi, costituisce un reato: quello di insolvenza fraudolenta.

4. Allo stesso modo, il cliente deve immediatamente comunicare al proprio avvocato l’aggravamento delle proprie condizioni economiche nel corso dell’esecuzione del mandato, qualora queste potrebbero pregiudicare il rispetto dei patti conclusi e, quindi, il pagamento della parcella a fine della causa.

5. Il cliente è tenuto a pagare all’avvocato anche la consulenza, sia questa telefonica o in studio. A tal fine, questi deve essere consapevole che, se anche non chiede prima a quanto ammonta l’onorario, sarà comunque tenuto a versarlo, non potendosi affidare all’uso, accettato da altri professionisti, di rendere le consulenze gratuitamente.

Il cliente ha diritto a ottenere il preventivo anticipato e scritto solo prima di un’azione giudiziale.

6. Il cliente non può imporre all’avvocato una strategia difensiva che questi non condivide poiché, in ogni caso, l’avvocato resta personalmente responsabile delle scelte processuali non corrette, anche se imputabili al proprio assistito.

7. Il cliente non può subordinare il pagamento della parcella dell’avvocato al buon esito della causa. La prestazione del professionista è – come si suol dire – una prestazione «di mezzi» e non «di risultato». Significa che il legale non è tenuto a vincere la causa, ma a comportarsi nel modo più diligente per far sì di ottenere un risultato soddisfacente. Se questo non si verifica (il che potrebbe avvenire per ragioni non dipendenti dalla condotta dell’avvocato), il cliente deve comunque corrispondere l’onorario.

8. Il cliente non può registrare a conversazione con il proprio avvocato all’interno dello studio di questi. Lo studio è infatti un luogo di «privata dimora» dove l’eventuale registrazione, fatta di nascosto e senza autorizzazione, non avrebbe peraltro alcun valore legale e non potrebbe essere utilizzata in un giudizio.

9. In caso in cui l’avvocato rinunci al mandato in corso di causa, il cliente ha l’obbligo di sostituirlo nel più breve tempo possibile. Difatti, finché non viene materialmente sostituito, il professionista ha l’obbligo di continuare a presenziare alle udienze per non lasciare privo di difesa l’ex assistito. Quest’ultimo deve quindi, al più presto, sollevare il legale da tale onere.

10. Alla cessazione del mandato, il cliente deve ritirare dallo studio dell’avvocato tutte le carte a questi lasciate per la propria difesa, firmando una liberatoria.

11. Il cliente non può controllare l’operato del proprio avvocato nominando un secondo avvocato senza che il primo ne sia al corrente. Il rapporto tra cliente e avvocato è di tipo «fiduciario». Se manca tale fiducia il rapporto si può estinguere. È tuttavia diritto del cliente nominare contemporaneamente più di un avvocato in difesa congiunta o disgiunta.

12. Il cliente deve rimborsare tutti i costi vivi sostenuti dall’avvocato per la difesa, come trasferte, spese di cancelleria, bolli, diritti, fotocopie. Il cliente deve anche tenere indenne l’avvocato dalle spese necessarie alla nomina di un avvocato domiciliatario.